Andy Warhol: arte e consumismo
- ilbugiardinodellarte
- 14 gen 2021
- Tempo di lettura: 5 min
I

l tema che abbiamo deciso di affrontare questa settimana tocca una dinamica complessa della nostra società. È un atteggiamento che accomuna purtroppo la maggior parte della popolazione mondiale, volto al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali, alieno da ideali, programmi, propositi, tipico della civiltà dei consumi. Poiché questo atteggiamento così diffuso caratterizza anche la realtà alla quale tutti i giorni ci affacciamo, sarà sicuramente molto facile da individuare e da cogliere in quanto alla base delle nostre vite: stiamo parlando del consumismo.
Quante volte ci siamo ritrovat* con cose acquistate non perché ne avessimo bisogno ma solo perché sentivamo il bisogno di possederle? Quante altre volte abbiamo desiderato ardentemente avere un oggetto che un bel personaggio della pubblicità portava con fierezza? Quante volte vi siete sentiti di essere schiavi di questo fenomeno che viene chiamato “consumismo”?
Ma che cos’è in effetti il consumismo? Qual è la sua origine?
Il consumismo è un orientamento diffuso in tutti i settori che compongono le società moderne, amplificato dalle trovate pubblicitarie che incoraggiano un consumo accelerato e senza sosta. Il fenomeno iniziò a svilupparsi con la rivoluzione industriale che diede il via ad una profonda trasformazione economica; se fino ad allora l’economia si era basata sulla soddisfazione dei bisogni fondamentali, con la rivoluzione industriale, si cominciò a diffondere sempre più l’abitudine di soddisfare anche bisogni superflui.
Questo fenomeno ha caricato gli oggetti di significati a loro estranei fino a renderli oggetti essenziali ed esistenziali, influenzando lo stile di vita dell’individuo che assume ora l’appellativo di “consumatore”, e l’atto del consumo diventa un valore a tutti gli effetti.
Tra gli anni sessanta e settanta, si assiste ad un boom economico in tutto il mondo, Italia compresa, dopo che il mondo era stato piegato dal peso della seconda guerra mondiale. Questi sono stati gli anni in cui è cambiato profondamente lo stile di vita di tutt*, davanti agli occhi della delle persone si apre la possibilità di intraprendere una nuova qualità della vita, totalmente opposta alla sofferenza e alla povertà che avevano caratterizzato gli anni della Guerra. A questo panorama di cambiamento gli artisti non rimasero certo estranei, anzi, colsero ampiamente gli spunti che derivavano dal bombardamento radiofonico, pubblicitario e televisivo che ormai caratterizzava la nuova società.
È in questo contesto storico che nasce la “pop art”, che evidenzia proprio i cambiamenti di cui abbiamo parlato. Non è un caso che gli artisti abbiano iniziato a dipingere attori, fumetti, merci di consumo, ecc., quando precedentemente rappresentavano prevalentemente santi e madonne, eroi del loro tempo e soggetti mitologici. Qualcosa dunque cambiò profondamente, e il motivo è da ricercare proprio nel fenomeno sopracitato che ha visto gli idoli da cercare e venerare non più tra le mura sacre di una chiesa, ma in televisione. Ciò che la TV trasmetteva altro non erano che modi di vivere nuovi e all’apparenza più facili e più felici, mode, stili di vita che piano piano, inevitabilmente ed indistintamente andarono ad influenzare un’ampia fetta di popolazione.
Il consumismo rende tutt* uguali, tutt* corrono nella stessa direzione per ottenere le stesse cose, nasce il mito dell’estetica impeccabile dove solo la bellezza canonica (che come capiamo impone un’omologazione), consente il raggiungimento di certi obiettivi o anche solo un inserimento all’interno di questa società. Questo fenomeno ha purtroppo fatto nascere molti problemi psicologici, soprattutto negli adolescenti, che lasciati alla mercé della pubblicità e di modelli impossibili, hanno sviluppato conflitti interiori tali da portare a gravi problematiche che hanno avuto e continuano ad avere importanti ripercussioni sulle persone, sia al livello fisico che mentale. L’uomo è sempre stato soggetto a conflitti interiori, forse è proprio la sua natura che lo impone, ma lo stress dato dal conflitto tra l’essere e l’apparire avrà sicuramente accresciuto la sofferenza individuale in questo senso. In questo periodo storico, in cui sembra quasi che ciò che ognuno è, conti meno rispetto a quello che si dovrebbe essere, crediamo si sia raggiunto un livello molto alto di dipendenza dal consumo e di malessere sociale ed individuale, legato alla continua lotta interiore tra essere e apparire e alla radicata insoddisfazione per ciò che si vorrebbe avere e non si possiede.
La pubblicità in questo panorama svolge un ruolo di primaria importanza: esiste un vero e proprio studio dietro le “pubblicità”, che prende in considerazione fattori psicologi, emotivi, comportamentali, studia i meccanismi e le tecniche persuasive con le quali raggiungere un numero sempre maggiore di persone per attrarle e per manipolare le loro azioni, incidendo direttamente sui loro bisogni.
La “pop art” è stata ampiamente criticata perché considerata vuota, ma viene da chiedersi: se la pop art prende come soggetti elementi tratti direttamente dal contesto, sarà forse vuoto il contesto che gli artisti si trovano a rappresentare su tela (o molti altri supporti)? È in questo che risiede la forza dell’arte: è una lente di ingrandimento su alcune dinamiche che altrimenti ci risulterebbero complicate da comprendere, o anche solo da considerare. Giudicare la pop art come vuota ed insulsa significa per forza giudicare come tale il contesto d’origine.
Il nome stesso ci parla di questa corrente e deriva dall’abbreviazione di “popular art” ossia di quell’arte che prende spunto dalla cultura quotidiana, la cultura di massa che infatti predilige soggetti quotidiani come scaffali dei supermercati ed eroi del cinema. Ma la pop art fa qualcosa di ancora più significativo: fa diventare arte la filosofia e le regole della comunicazione della società di massa. È uno stile artistico ampio che alla base non ha solo una volontà descrittiva, ma ha anche un chiaro intento ironico e provocatorio.
La società del consumismo è motivo di profonde critiche e tanti sono stati gli artisti che hanno utilizzato la propria arte come mezzo per esporre il disagio esistenziale che la società contemporanea vive, tra questi ricordiamo Andy Wahrol, l’artista senza dubbio più influente del ‘900.
Nasce nel 1928 da genitori cecoslovacchi immigrati e sarà salvato proprio dall’amore per l’arte.
Negli anni del boom economico la società dei consumi prese forma e diventare ricchi non era più impossibile anzi, diventa un obiettivo condiviso da molti perché alimentato da slogan e disparati messaggi pubblicitari. In questo clima di grande fervore New York sembra essere il posto perfetto per farsi strada e Warhol riesce a farsi notare.
Le prime opere dell’artista si basano sulla ripetizione delle immagini richiamano la produzione in serie dei prodotti, tipica dell’epoca industriale della società dei consumi. Nei primi anni sessanta che la sua visione artistica si consolida ed inizia a rappresentare tramite freddi fotogrammi la quotidianità americana.
In questi anni nasce la sua prima serie di opere: “Campbell’s soup cans” realizzata nel 1962. Vediamo come ognuno di questi dipinti replica l’originale con la sola aggiunta di qualche piccolo dettaglio che le differenzia. Ognuna di esse si allinea per dare l’impressione di essere davanti ad uno scaffale del supermercato grazie alla serializzazione di un modulo.
Anche il colore gioca un ruolo funzionale al prodotto rappresentato: infatti, le scatole di Campbell’s soup sono state stampate su un fondo bianco per far risaltare lo scatolo rosso, colore utile a creare un soggetto iconico.
Andy Warhol si inserisce perfettamente in un contesto storico contemporaneo e se ne fa portavoce critico.
Questo articolo non nasce con l’intenzione di voler spiegare approfonditamente un fenomeno complesso, ma vuole solo far ragionare riguardo un fenomeno sociale a noi contemporaneo.
Invitiamo ognuno di noi a prendere coscienza di quanto detto e di scegliere sempre la qualità, l’etica di un prodotto che non sempre la rispetta in quanto la produzione di massa impone costi e tempistiche molto particolari che non si sposano con i ritmi umani e naturali.
Rosamaria Annunziata
Cecilia Borrelli
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